Storie di vegetariani senza verdura e di onnivori sbadatamente vegetariani
Quando ho iniziato a rifiutare la carne non sapevo neanche quale fosse la
differenza fra vegetariano e vegano, cosa fosse una dieta crudista piuttosto
che fruttariana o macrobiotica. La mente di una bambina è semplice, diretta e
spontanea: non volevo più la carne perché gli animali soffrivano e morivano e
questo mi bastava, cosa stavo diventando e quale definizione alimentare avrei
avuto nel mondo degli umani non mi passava neanche per la mente.
I primi tempi fu proprio una fatica, specialmente per mia
mamma, per le mie zie e per la nonna e la domanda più ricorrente prima di tutte
le riunioni familiari riguardava “cosa far mangiare alla bambina”. Mamma qualche volta mi comprava in un rarissimo alimentare Bio un po’ di
seitan o un pezzo di tofu: una decina di anni fa in una città come Bari i punti
vendita Bio si potevano contare su metà dita di una mano, erano per lo
più erboristerie molto fornite, alcune avevano anche un banco frigo. Roba di elite,
per gente che faceva i capricci alimentari anche solo per la linea.
Un bel po’
di questioni etiche rimanevano fuori dal punto vendita.
Seitan, Tofu, Tempeh, per me erano un lusso e quindi io e
mamma per anni ci siamo perfezionate a preparare pranzi e cene con gli
ingredienti semplici: verdure, cereali, legumi, frutta e frutta secca. Sfornavamo
tortini, dolci, piatti di pasta al forno, polpette di legumi e verdure ripiene
di ogni tipo. È stato così che ho iniziato a pensare che una scelta alimentare
come la mia comportasse non solo un rifiuto della sofferenza di altri esseri
viventi, ma anche una scelta di benessere personale. Significava infatti così
come significa tutt’oggi, essere responsabile delle proprie scelte alimentari,
preparare con le proprie mani i pasti quotidiani, consumare verdura e frutta di
stagione alternando in modo equilibrato gli alimenti in base alle loro
proprietà. In passato come ora io volevo sapere cosa avevo nel piatto, cosa c’era
nel sugo, se c’erano formaggi piuttosto che uova, burro o strutto piuttosto che
olio, significava e significa essere consapevole di cosa introducevo nel mio
corpo.
E questa non è una moda. Questo si chiama buon senso, si
chiama intelligenza, si chiama volersi bene senza parlare esclusivamente di
scelte vegetariane.
Qui a Milano essere vegetariani è, come quasi ogni altra cosa una moda. È IN, è uno spunto per le tendenze anoressiche a consumare ancora meno
cibo, per gli alternativi ad essere ancora un po’ più alternativi magari se
associato ad una buona dose di buddhismo e yoga. Scelte assolutamente
personali, ma la maggior parte della gente non sa ancora quello che mangia.
I
ristoranti vegetariani sono quelli più costosi e più chic quando magari si può
mangiare dell’ottima verdura senza fronzoli spendendo la metà in un qualsiasi
altro posto (per non parlare della convenienza di starsene a casa propria e cucinare qualcosa in compagnia). La gente fa la fila in questi supermercati bio-eco-super fashion
per comprare i wurstel di seitan, gli spezzatini di tofu, l’arrosto di verdura
in tempeh a sua volta imbevuto in salsa di soya del nuovo Madagascar. E la
gente compra e spende, quando non c’è bisogno di spendere patrimoni in finti
affettati, iniziamo a imparare come si cucina una bietola o come si
puliscono le rape.
E poi, qualcuno sa per caso che il seitan si prepara a casa
spendendo 1 solo euro per la farina?
Un paio di giorni fa ero in uno di questi negozietti bio che,
guarda caso ha aperto in una delle zone più ricche di Milano. Volevo della
semplice tahina e del burro di noccioline da usare con parsimonia tipo beni di
lusso come mi ha insegnato mamma, ebbene mentre pagavo una signora tutta
seccata quanto ingioiellata inizia a dire “Ormai solo roba vegetariana qui eh?”
“Volevo le polpette di carne” “Non si capisce più niente qui, non si trova
niente”. Forse la poveretta aveva scambiato il negozio per un’Esselunga dalle
dimensioni più umane e i prezzi più cari, poverina perché il suo carrello era
pieno di quasi 100 euro di roba certamente biologica ma tutta
imbustata, già pronta, inscatolata, piena di un sacco d’ingredienti che la mal
capitata forse non conoscerà mai in tutta la sua vita.
E forse neanche io e voi
nonostante il biologicamente corretto e il vegetarianesimo indiscusso.
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