venerdì 7 settembre 2012

Incontri

(1) L'uomo dal collo rigido

Ci sono parecchie domande che balenano ricorrenti nella mia mente, tipo – Cosa diavolo fotografano i giapponesi?Come ci si sente prima di morire?Quanto fa male partorire? Cosa pensano i carcerati prima di andare a dormire e, come vivono i senza tetto?-
A volte è come se la mia testa volesse sintonizzarsi  su tutte queste esistenze per capire cosa si prova a non essere me o ancor di più a vivere delle situazioni a me estranee. Spesso provo a renderle vicine con la forza dell’immaginazione: ci sono delle vite che mi affascinano,  altre che mi fanno paura, ma sempre mi pongo la stessa domanda: “io? Cosa farei?”
Il barbone del quartiere è un ometto piccolo e magrissimo con i pantaloni tirati fin sopra la vita con una cinta stretta stretta. Ha un camicione tutto ficcato dentro alle braghe, un po’ di barba e un po’ di capelli e un collare tipo gesso che tiene fisso al collo. Io lo chiamo l’uomo dal collo rigido e quando l’incontro mi chiedo sempre in mente come si sente, se ha caldo, freddo, quali sono i suoi pensieri e, se quando viene notte, ha paura di dormire da solo.
Lui non  guarda la gente e cammina veloce, come se nulla esistesse tra il suo corpo e lo spazio che attraversa. A volte lo incontro mentre borbotta, altre che fruga nei bidoni, ma mai senza il suo inseparabile zainetto. Ha un invicta ormai senza colori, mezzo vuoto e ben chiuso, tutto sporco e io penso sempre a quanto dev’essere prezioso per lui e a come sia legato al suo piccolo bagaglio perché non se ne separa mai.
Un giorno passavo in bicicletta dalla sua strada, erano più o meno le 7.30 e lui ancora dormiva sulla panchina verde di ferro. Riposa sempre sotto gli alberi. Era la prima volta che lo vedevo steso, al riposo dalla sua camminata frenetica e ho rallentato, curiosa della sua vita. Aveva lo zainetto addosso, attaccato alle spalle come se ci fosse una colla che li rendesse inseparabili. La testa era rigida, sospesa, non poggiava sulla superficie a causa del volume del bagaglio. Un pezzo unico di carne e tessuto, un corpo immobilizzato dagli acciacchi e dalla vita. Allora ho pensato che forse lui non ha paura di dormire da solo per strada, ma sicuramente ha ogni giorno il fottutissimo terrore di perdere il suo zainetto.
Ci siamo incrociati spesso da quando vivo lì, ma ancora non riesco a visualizzare bene i tratti del suo volto perché va sempre di fretta, ma quando sento che  fuori fa troppo freddo, troppo caldo o piove io penso sempre a lui e al suo zainetto.
L’altro ieri l’ho incontrato e aveva cambiato panchina scegliendo il primo albero dopo il mio portone. Era sempre nella stessa posizione, con la testa rigida stirata un po’ più su e per la prima volta l’ho sentito parlare. Era arrabbiato –urla contro l’aria pensai-. Poi ho visto che aveva lo sguardo fisso, puntato sul suo interlocutore: un albero. Chiedeva giustizia, borbottava contro la vita, e ad ascoltarlo foglie e corteccia. Intorno nessuno.
Non ho pensato fosse matto e mai, come in quel momento, ho sentito la sua esistenza vicino alla mia.

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