giovedì 27 settembre 2012

Grazie per la collaborazione

Non so ancora cosa vuol dire amare il proprio lavoro perché a 27 anni ancora non ne ho uno.  Sono una ragazza laureata, con un master, stagista in un ospedale, destinata almeno per il futuro più immediato, al più feroce precariato. Non ho paura, né angosce particolari, continuo a lavorare con passione, a dare il massimo di me stessa e delle mie competenze anche se sono l’ultimo dei fili d’erba cresciuti qui dentro, incerto di resistere  alla prossima raffica di vento.
Anche qui soffriamo la crisi attuale e le conseguenze degli sprechi passati e, come in tutte le altre aziende, vediamo quasi ogni giorno andar via qualcuno, dagli amministrativi ai sanitari, nessuno risparmiato. Pensavo che un ospedale funzionasse un po’ diversamente e che, una volta qui dentro avrei sentito parlare più di persone che di numeri, ma le percentuali vengono fatte anche sulle cure e sui pazienti e, quando si tratta di risparmiare e di riuscire a fare sempre più profitto, non si guarda in faccia a nessuno.
Ognuno si tiene stretto il proprio posto di lavoro, come se fosse un brandello di terra promessa, e nessuno, un po’ per paura e un po’ per menefreghismo osa alzare la testa ed esprimere il proprio disappunto o prendere parte, anche solo per solidarietà, alla tristezza dell’ultima testa tagliata.
Non so cosa vuol dire lavorare da tanti anni per la stessa azienda e con le stesse persone, suppongo che sia un po’ come timbrare il cartellino in una seconda casa dove puoi incontrare familiari cari e parenti alla lontana che proprio non riesci a mandar giù, amici e conoscenti.
Fai del tuo meglio per sentirti comodo e per accogliere nel migliore dei modi chi chiede aiuto e ospitalità, ti fai conoscere, cresci e t’irrobustisci tra quelle mura che ti rendono forte e un po’ ti proteggono. Fino a quando scopri che quella non è proprio la tua casa, ma un luogo dove sei  un semplice affittuario come tanti altri e che, per quanto sia stato grande e importante il tuo contributo, sei sempre di passaggio e soprattutto non indispensabile.
Accade per noi giovani figli, per i padri e le madri, nessuno membro della famiglia è escluso in questo tempo spietato.
Con questo post vorrei salutare un collega, un amico, un uomo di grande esperienza che ho conosciuto in questi mesi di lavoro. Rispondo in segreto alla suo messaggio di addio  inviato a tutti i dipendenti  augurandomi con tutto il cuore che non abbia mai paura, che non si senta perso e non si arrenda mai. Un augurio per lui, per me e, toccando ferro, un po’ per tutti.
Questa la sua lettera:
Carissime/i,
venerdì 28 settembre concluderò la mia collaborazione causa “raggiunti limiti di età”, come si usa dire con termine tecnico. Era il marzo del 1994 quando, intimidito dalla struttura, ne varcai la soglia, ancora cantiere;  ho trascorso questi 18 anni e mezzo lavorando con grande entusiasmo, in modo totale, con una carica particolare come accade sempre quando si deve far “decollare” un’azienda.  Ho dedicato molto tempo a…,nei vari incarichi assegnatimi, ma sempre consapevole ed orgoglioso di partecipare con tante altre persone ad uno dei progetti più importanti mai realizzati nella sanità in Italia.
Inutile sarebbe scrivere che questi anni sono stati per me quelli più importanti, sotto ogni punto di vista, degli oltre 40 anni di lavoro, pur avendo avuto la fortuna di svolgere sempre lavori interessanti, complessi ma pieni di soddisfazioni. E non è poco, credetemi, per un amministrativo.
Affermare anche che questi anni mi hanno umanamente arricchito, non è retorica, ma semplice verità. In fondo, a parte le scartoffie sul tavolo, ho avuto sempre il contatto con i pazienti e questo è stato determinante.
E’ mio desiderio ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato in questi anni a condurre al meglio il mio lavoro e per la pazienza che avete avuto; nello stesso momento perdonatemi se spesso sono stato pedante e pignolo ma è sempre stato fatto nell’intento di lavorare bene, essere chiari e trasparenti.
Con molti di Voi sono nate delle sincere, profonde amicizie e questo è motivo di gioia. Non è così facile e scontato in un ambiente di lavoro!
Un abbraccio affettuoso.
xxx

2 commenti:

  1. Ciao! Ti ho raggiunta seguendo il filo del mio blog e mi trovo a leggere questo post. Io ho lavorato 10 anni da precaria in un ospedale universitario, in laboratorio. Precaria è dire poco.. andavo avanti con borse di studio a singhiozzo.
    E' dura quando ci entri... altro che persone e pazienti ma numeri e percentuali!
    A volte penso che sia tutto sommato un modo per valutare le situazioni con quel distacco necessario a rimanere concentrati. Ma in realtà si tratta pur sempre di aziende e le aziende come si sa hanno un bilancio e una contabilità.
    Me ne sono dovuta andare perchè avevo bisogno di una busta paga a fine mese.. ma la pensione è un'utopia!

    Non scoraggiarti così giovane come sei!
    Un abbraccio
    Laura

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  2. Ciao Laura, devo dirti che non sono scoraggiata, ma solo un po' delusa. A parte la busta paga quasi o del tutto inesistente, mi dispiace a volte vedere come un ospedale funzioni proprio come un'azienda, niente di più niente di meno. Sono sincera, ci sono delle eccezioni, ma immaginavo una realtà diversa e più umana. Spesso non è così, ma io nel mio piccolo continuo a crederci e ad impegnarmi.
    Un abbraccio
    Dalila

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